Usato a volte a sproposito, questo concetto è molto importante nell'ecologia moderna. E nasconde aspetti interessanti e profondi, più ampi della semplice diversità agricola.
Biodiversità è una parola di moda, usata in svariate occasioni e nei contesti più disparati, dalle mostre alle conferenze fino alle dichiarazioni ufficiali dei decisori politici: è ormai quasi una parola d’ordine, soprattutto da quando è stata così fortemente legata ai temi di Expo 2015. Dietro alla parola si nascondono però significati più ampi di quelli più comunemente considerati.
Il termine è relativamente recente: come concetto è stato usato per la prima volta nel 1968 dall’ecologo Raymond Dasmann e, qualche anno dopo, dal biologo Thomas Lovejoy nel suo libro Conservation biology. Solo nel 1988 apparve esattamente come biodiversità, nel libro dallo stesso titolo, una raccolta di saggi curata da Edward Wilson, biologo ed evoluzionista americano.
Da quel momento gli studi per chiarire che cosa fosse la biodiversità si sono moltiplicati fino ad arrivare a una classificazione (quasi) condivisa tra gli studiosi. È una definizione ampia, che corrisponde poco al significato riduttivo che di biodiversità danno i giornali o le mostre, le presentazioni e le conferenze di guru dell’alimentazione, che dimenticano il 99% della vera biodiversità per concentrarsi sulla diversità agricola, cioè solo quella relativa alle piante coltivate e agli animali allevati.
Una frazione certo importante, specie per l’uomo, ma piccola rispetto all’intera diversità biologica del pianeta.
SFUMATURE
Secondo gli ecologi la biodiversità si può misurare in tanti modi diversi. Il più semplice di questi metodi consiste nel contare il numero di specie presenti in un determinato ambiente: più specie ci sono, più l’ecosistema è ricco. Ma c'è di più, come suggerisce questo esempio.
Un ambiente potrebbe avere 10 specie, con 9 rare (un paio di individui l'una) e 1 dominante (una decina di individui). Un altro ambiente potrebbe ugualmente avere 10 specie, ma solo 3 rare (un paio di individui l'una) e altre più comuni, con quattro, cinque, sei individui l'una. La semplice conta porta allo stesso risultato, ma quale dei due ambienti ha maggiori probabilità di mantenersi vario? Il secondo, è evidente, e la situazione descrive appunto la sua maggiore biodiversità.
C’è poi la biodiversità di ambienti all’interno di ecosistemi diversi e a questo si possono aggiungere ancora altre letture dello stesso concetto. C'è per esempio la diversità genetica, cioè quanti geni ci sono in una popolazione di una specie; oppure la diversità molecolare, che sta a indicare il numero di molecole che derivano dalla ricchezza genetica e di specie. Ognuna di queste misure è stata oggetto di approfondite analisi e discussioni, perché la biodiversità è uno dei fattori più importanti per la conoscenza dell’ambiente e degli ecosistemi.
STABILITÀ
Perché gli ecologi non trovano un punto in comune sul come misurare la biodiversità?
Perché alcuni la considerano decisiva e altri non così importante? Dopo molti confronti, il mondo scientifico si è messo d’accordo su un fatto: il numero di specie, e in definitiva la ricchezza di un ambiente, sembra essere collegato a una caratteristica fondamentale degli ecosistemi, cioè la loro stabilità. La capacità cioè di resistere alle perturbazioni esterne senza modificarsi troppo. O ancora alla resilienza, ossia la capacità di tornare allo stato “naturale” anche dopo grandi modifiche ambientali.
Un ambiente molto vario, ricco di tante specie ben distribuite, sopporta meglio di uno povero l'inevitabile impatto delle attività umane
E PER LA NOSTRA SPECIE?
Ma anche dal punto di vista dell’uomo la biodiversità è un valore fondamentale: un ambiente stabile perché biodiverso può svolgere meglio i cosiddetti servizi degli ecosistemi, che vanno dalla depurazione delle acque inquinate all’emissione di ossigeno da parte delle piante, dai prodotti degli ambienti naturali alle funzioni spirituali e religiose che molti ambienti hanno per alcune popolazioni.
BIODIVERSITÀ AGRICOLA?
Come si vede, questi significati di biodiversità hanno poco a che fare con il numero di cultivar (varietà) di mele o di grano presenti nei campi, o anche del cosiddetto germoplasma, ossia il patrimonio genetico delle singole specie coltivate presenti nelle banche dei semi in tutto il mondo.
Anche se importantissima per la sopravvivenza della nostra specie, questa interpretazione di biodiversità è riduttiva: è solo un sottoinsieme della biodiversità naturale, costituita da milioni e milioni di specie, non dalle poche migliaia di razze o cultivar di un frutto o un animale domestico. Anche perché molto spesso i geni che possono salvare una coltivazione, per esempio da un parassita che rischia di spazzarla via, provengono non tanto dalle varietà coltivate ma dalle specie selvatiche, che hanno per definizione una biodiversità molto superiore a quella delle domestiche.
Ridurre quindi la biodiversità solo e soltanto a quelle delle specie che a noi interessano vuol dire confondere i piani, limitare la conoscenza a un pianetino di fronte a un universo di specie differenti e appropriarsi in modo scorretto e riduttivo di un concetto complesso e interessante. E, in fondo, trattare tutto il pianeta come un nostro orticello, in cui raccogliere quel che vogliamo senza pensare alle conseguenze.